La decodifica dei cieli: la soluzione del mistero del primo calcolatore al mondo


Le scoperte archeologiche sorprendenti, quelle che trasmettono persino all’archivista più noioso fantasticherie circa gli astronauti e gli antichi viaggiatori del tempo, sono purtroppo molto rare. C’è una colonna di ferro a Delhi eretta intorno al 900 a.C., che si è arrugginita solo pochissimo; la cosiddetta “batteria di Bagdad„ – un vasetto del periodo Sassanide che può essere (o no?) una pila elettrochimica, benchè sia difficile da sostenere, poiché non ha in nessun posto i contatti a cui attaccarsi. Ma ci sono alcuni piccoli appigli.

L’unico oggetto con una fama rispettabile per avere rovesciato le conoscenze stabilite è il meccanismo di Antikythera, un pezzo di bronzo corroso di 2.000 anni che è la parte più impressionante d’un movimento a orologeria, precedente al sec. XVIII, che possediamo.

Nel 1901, una squadra di subacquei greci, pescatori di spugne stava studiando un antico relitto fuori dal litorale di Antikythera. Insieme a statue di bronzo e ad altri oggetti che risultarono utili per la datazione della nave, si trovarono alcuni bei pezzi di calcare verdastro incrostato, da cui, in modo intrigante, spuntavano delle specie d’ingranaggi.

Ciò avrebbe dovuto, per così dire, far suonare i campanelli di allarme: sino a quel momento si era pensato che l’intera tradizione dell’orologeria europea provenisse dall’Arabia del sec. X; la fioritura di quest’arte nel XV secolo aveva ispirato le idee meccanicistiche di Cartesio e di Laplace, che, a loro volta, gettarono le basi per i trionfi tecnologici dei secoli seguenti. In altre parole, quei pochi denti avrebbero potuto causare un ribaltamento importante nella storia del pensiero.

Invece, quei bei pezzi furono lasciati per parecchi anni in una cassa fuori del Museo Archeologico nazionale di Atene. A contatto con l’aria, l’acido cloridrico ha cominciato a formarsi intorno ai frammenti rimasti, mangiando via i loro meccanismi. Per il momento in cui chiunque avesse voluto controllare il dispositivo, avrebbe visto con molta difficoltà che cosa potesse essere stato. La storia di come è stato trattato questo reperto, nel corso degli ultimi 50 anni, è il tema principale del libro divertente di Jo Marchant.

La scelta di mettere a fuoco quest’aspetto del soggetto potrebbe essere un errore, ma comunque il racconto scorre molto bene, come potrete indovinare. Tutto è cambiato con i miglioramenti della tecnologia dell’immagine 3D – essenzialmente le cosidette Cat scans, “scansioni di gatto” – unite con l’intuizione degli eruditi relative al meccanismo ad orologeria. Non ci sono molte possibilità di alleggerire l’esposizione, benchè Marchant ci provi con una certa abilità. Michael Wright, uno studioso britannico, ha distrutto la propria salute, il proprio matrimonio ed il lavoro provando a ricostruire il dispositivo con la sua intelligenza meccanica. Quando si è trovato battuto da un produttore cinematografico di documentari, che ha utilizzato l’apparecchiatura di flash-tomografia, si è rivolto dalla parte del suo rivale per esprimerequella che un testimone ha definito: “mezz’ora di collera continuamente controllata„. Sapendo ciò che ha passato, non so dargli colpa.

Tuttavia, malgrado tali intense passioni, i partecipanti al dramma di Marchant rimangono per lo più anonimi. Una breve citazione per suggerire il tono di voce ed il carattere abbozzato attraverso un cliché: “Field era un erudito attento, ferocemente fiero del suo PhD„; “Agamemnon è… un grande ma dolce orso di un uomo„ ecc. Si ricava un’impressione di tenera e voluttuosa ansia, come se Marchant avesse pensato che i suoi intervistati si potessero rivoltare, a meno che fossero ritratti come eroi.

Nulla di questo distrae dall’interesse principale: il dispositivo. Marchant lo chiama un computer, il che sembra un’esagerazione, poiché non era in alcun senso programmabile, ma era senz’ombra di dubbio un oggetto incredibilmente brillante. Un calendario meccanico, che forniva le posizioni delle stelle, molto possibilmente le previsioni delle eclissi e potrebbe, in modo piuttosto non convenzionale per il tempo, porre il sole anziché la terra al centro dell’universo.

Michael Wright crede che il dispositivo originale possedesse 72 ingranaggi. Quelli che sopravvivono sono così piccoli e perfettamente modellati, per non dire che sono organizzati in un così elegante un meccanismo, da suggerire una tradizione matura nei lavori di orologeria, che non è sopravvissuta. Il bronzo era un prodotto limitato, spesso riciclato. Gli scrivani medioevali hanno teso a copiare soltanto quei trattati degli antichi che riuscivano a capire. In questo modo, i vertici di ingegnosità umana retrocedono. Qualsiasi altra cosa potessero aver detto gli antichi creatori, il meccanismo di Antikythera ci offre un messaggio di chiarezza e di conforto, per la nostra età tecnologica.

Articolo (in inglese) su http://www.telegraph.co.uk/culture/books/bookreviews/4174865/Decoding-the-Heavens-Solving-the-Mystery-of-the-Worlds-First-Computer-by-Jo-Marchant—review.html


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