Scienza e fede separate in casa. Parla un premio Nobel che cita anche gli extraterrestri
Dopo tre giorni passati a Milano per lavoro, fra la sede della filiale italiana e il grande albergo dove dormiva e aveva visto andare e venire solo manager come lui, un mio amico stava pagando il conto alla reception quando udì alle sue spalle un cicaleccio inconfondibile: donne giovani, tante donne, che stavano entrando. Si girò per uscire e andò a sbattere col naso contro il petto di un angelo biondo, alta e magra, sorridente e cinguettante. Piacevolmente sorpreso, mormorando un poco convinto “sorry”, fece per scansarsi, ma si ritrovò bloccato ai lati da una barriera di cloni dell’angelo biondo che premevano verso il bancone: modelle appena sbarcate per la settimana delle sfilate che stava per cominciare. «Gradevolmente stordito» ha raccontato poi «ho ripensato alle tre serate passate in solitudine e ho pensato: Dio esiste. E mi sta prendendo per i fondelli». Reazione umana, umanissima. Ma secondo Arno Penzias, premio Nobel per la Fisica nel 1978, del tutto insensata: immaginare che esista un Dio che interviene nel mondo significa credere a un «creatore limitato. Non sufficientemente in gamba per fare la cosa giusta fin dall’inizio. Praticamente un’idolatria». Difficile contraddirlo, l’astrofisico americano non crede in Dio ma di Lui conosce molto più della media dell’umanità. Il Nobel infatti gli è stato assegnato per aver scoperto la radiazione cosmica, in pratica l’eco del Big Bang. Per chi ci crede: ciò che resta nello spazio del frastuono provocato dai “lavori” compiuti dal Padreterno nei sei giorni che la Genesi ci racconta. Penzias, ebreo tedesco sfuggito bambino all’olocausto, osserva le festività, va regolarmente in sinagoga, segue i riti, e ammette che il suo comportamento (essere giusto, essere generoso) è influenzato dalla religione. Ma «abbiamo dei corpi solo fisici e nient’altro» dichiara in “La variabile Dio” (Mondadori) di Riccardo Chiaberge, dialogo sull’universo e il senso ultimo della vita fra il premio Nobel e padre George Coyne, il gesuita che ha diretto l’osservatorio astronomico di Castelgandolfo durante l’intero pontificato di Giovanni Paolo II. «L’anima» aggiunge Penzias «coincide con l’altruismo incastonato nel nostro Dna». Dalle diverse risposte che alle medesime domande del giornalista forniscono i due interlocutori, si intuisce quanto sia difficile per tutti oggi combinare scienza e fede, ma anche rinnegare una a favore dell’altra. Un esempio: la vita intelligente extraterrestre, che secondo alcuni scienziati deve esserci perché niente ci autorizza a pensare diversamente. Alla domanda «come si concilia questa teoria con la Bibbia?» è comprensibile che Arno ironizzi: «Potrebbe Dio aver mandato suo figlio su Mercurio o su Marte? Non vedo come. Se Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, può essere anche vero Dio e vero marziano?». Padre George: «Non so, non ho nessuna prova a favore o contro l’esistenza di vita extraterrestre». Ammettiamo, per ipotesi, che scopra un altro essere. Allora «gli chiedo: hai una dimensione spirituale? Il tuo popolo commise peccato originale? Sei stato salvato? Se sì, in che modo? Se l’extraterrestre mi risponde: Dio ci ha salvati mandandoci il suo figlio unigenito, allora avremmo un problema su cui riflettere». Non si tratta di una risposta politicamente corretta. Il gesuita non considera i Vangeli veri fino a prova contraria. È convinto che l’universo «è stato creato da Dio che mi ama». Semplicemente si scinde in due: quando fa lo scienziato, il prete non interferisce, e viceversa. A proposito del Giudizio Universale lo dice esplicitamente. La scienza ha accertato che l’universo si sta espandendo a una velocità sempre maggiore, un indizio dell’eternità del mondo. Come la mettiamo con l’Apocalisse? «Separo i due campi» risponde Coyne. «Un universo che dura per sempre e, in un’altra dimensione, in una dimensione spirituale, credo che anch’io vivrò per sempre». Del resto anche il premio Nobel ha lo stesso problema, anche se con i termini capovolti: è un evoluzionista e non crede in Dio. Perché allora osserva lo shabbat e hanukka? «L’universo rinvia all’esistenza di un’entità trascendente» osserva «fuori dal tempo e dallo spazio», ma niente di più. L’assenza di questa entità frustrerebbe il suo «bisogno di significato», insomma «c’è un desiderio di infinito, di qualcosa che trascenda la nostra esperienza», perché sentiamo «il bisogno di uscire dal nostro mondo». In altre parole: scienza e fede sono inconciliabili. Ma possono sempre entrare nella nostra vita e rimanerci come separati in casa, in tregua perpetua. Come tante nostre personali contraddizioni, che a volte fanno a pugni, ma più spesso si ignorano per quieto vivere. Non si può pretendere che si capiscano. Al massimo possono tollerarsi, come possono farlo due donne comprensive che si devono spartire un uomo solo. Ciascuna lo vorrebbe tutto per sé, ma non si può. L’importante è che lui non osservi l’una con gli occhi dell’altra. Fonte: http://www.libero-news.it/Radiazione cosmica
Voglia di infinito